Maschio Adulto Frankenstein
Cosimo Argentina è un narratore naturale. Non voglio dire inconsapevole: intendo che prima di essere letterato è uomo (maschio tarantino per esattezza) e se mai dalla penna dello scrittore
scaturissero ornamenti leziosi il ragazzo di quartiere glieli ricaccerebbe nella penna. Se poi al prof – operante in Brianza - venisse in mente di sfornare programmi politici o tesi cosmogoniche
il bevitore d’autarchica birra Raffo li smonterebbe col cavatappi. Neppure le svenevolezze festaiole del Salento da bere, con la sua retorica delle radici, attecchiscono nel mondo duro di rione
Tamburi. Se ci sono sofferte scelte di poetica dietro la sua scrittura, Argentina non le mostra di certo. I risultati non sono omogenei. Si va dalla giocosa leggerezza
di Viaggiatori a sangue caldo al sanguigno, barocco, surreale ritratto della città natale di Nud’e cruda. L’attenzione critica, notevole
per il Cadettod’esordio, era venuta meno nel tempo e si rinfocola solo adesso per Maschio adulto solitario (Manni Editore). Avrei
preferito si riattizzasse per il magnifico Cuore di cuoio (uno dei più calzanti titoli di sempre), il cui testo perfetto, senza una sbavatura, era illustrato da
apposita copertina d’autore, ma lì non c’erano stupri e massacri e la critica ormai si occupa solo di romanzi a tinte forti. Non parlo dei recensori di Pulp ma dei
critici paludati, dei seri titolari delle testate storiche, divenuti da un giorno all’altro palati forti (ottima stampa anche per il conterraneo di Argentina Omar Dimonopoli - tarantino di
provincia – che con Ferro e fuoco ha risciacquato in Ofanto i panni ionici diUomini e cani - tutti Isbn).
A me l’ultimo libro di Argentina non è piaciuto. Troppo compiacimento del trucido, troppo programmatico pessimismo. Non dico si debba sempre uscire a riveder le stelle, ma mi si lasci
almeno intravedere l’altra faccia della luna: un’opera vale se è ambigua, se altri mondi, anche solo terreni, intersecano lo sfondo, allargano l’orizzonte. Al nichilismo – nella fattispecie al
dolorismo meridionale - abbiamo già dato e ci vuole molto più coraggio e fatica a cercare - e a restituire - la gioia. Mie idiosincrasie a parte, questa del maschio adulto solitario non è
una discesa all’inferno e neppure uncrescendo di abiezione e turpitudine (che Antonio Gurrado su www.booksbrothers.it trova
“rossiniano”): è uno scontato soggiorno, dalla cupezza non celiniana, come affermano alcuni, ma scoliana (nel senso di Brutti, sporchi e
cattivi).
Se per Renato Barilli (l’immaginazione) quello che a me pare fumettistico (visualizzo Cosimo seduto alla tastiera che si propone di cavalcare l’estetica del brutto dipingendo il quadro più
sordido che si possa escogitare, la più iperbolica galleria di mostri mai vista) risulta realistico (neo-neorealista, per l’esattezza) non posso non chiedermi: in che realtà vive Barilli?
L’equivoco è solo in parte dovuto alla maestria dell’autore, a quella scrittura cruda, immediata, incalzante, che rende vivida e credibile ogni scena, che stende su ogni epidermide quella patina
iridescente da cozza nera appena aperta che solo Tomasi Ferroni sapeva applicare alle nature morte marinare. Il piglio di Argentina è realistico. Irrealistico invece il susseguirsi di troppe
scene di un solo segno, di troppe maschere con un solo ghigno. Ma per chi meridionale non è, una lettura tutta violenta e laida del Sud risulta esoticamente – comodamente – realistica. Comincio a
comprendere Andreotti, che paventava il marchio di sciuscià. Lui pensava agli spettatori d’oltre oceano – o d’oltralpe – e si riferiva a capolavori. Ora bisogna preoccuparsi di chi sta sopra la
linea gotica. E parliamo di maniera.
Curioso che il romanzo abbia trovato un fervente sostegno sull’Avvenire, nelle cui pagine letterarie Massimiliano Castellani tenta una definizione del nostro autore
per accostamenti. “Più vicino a John Fante che al primo Marco Lodoli del Diario di un millennio che fugge”. E non ci piove: non so Fante ma Lodoli non c’entra di
sicuro. “Distante ma non troppo, almeno a tratti, dal concittadino noir Giancarlo Di Cataldo, il suo humus è quello sotterraneo di un Sud sound system”. Ok. “Un po’ Enzo Striano e un po’ Rocco
Scotellaro dei giorni nostri”. Scotellaro? Neanche dei giorni nostri, direi. “L’approccio alle vicende umane del suo alter ego è vissuto sempre con l’occhio antropologico di un De Martino”. De
Martino non poteva mancare, sia pure contestualizzato dall’aggettivo ‘contemporaneo’. Per un’altra similitudine (“fuoriclasse della razza dei Soriano”) Catellani ricorre a un opportuno gioco di
parole sull’Argentina mentre per l’ultima – parziale - dissomiglianza si ricorre a una citazione di Sergio Pent: “il Sud di Argentina non è quello di Saviano, ma il disagio è identico”. Dovendo
illustrare un noir, insomma, il critico ha pensato bene di rifarsi a un horror, realizzando la recensione Frankenstein.
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